Nei documenti UE che accompagnano l’ultima revisione del PNRR compare una cifra che non è passata inosservata: 795,5 milioni di euro per l’investimento dedicato alle Comunità energetiche rinnovabili e all’autoconsumo collettivo. Il dato arriva direttamente dalle schede tecniche ufficiali dell’Unione Europea. Nella tabella della marcatura clima/digitale del documento SWD(2025) 348 final l’investimento M2C2.I1.2 è infatti riportato con un budget di 795,5 milioni, mentre l’allegato tecnico alla proposta di decisione del Consiglio COM(2025) 675 final conferma il trasferimento al GSE di 795.500.000 euro per la stessa misura.
Questa cifra oggi definisce la misura. Ma è il confronto con la dotazione iniziale a creare la vera tensione. Infatti, la la dotazione iniziale era pari a 2,2 miliardi di euro, importo che aveva alimentato l’avvio di progettazioni, sopralluoghi, impegni finanziari e decisioni amministrative in tutta Italia. Una riduzione di questa entità non passa mai inosservata, e in questo caso arriva proprio nel momento in cui le Comunità energetiche stavano finalmente uscendo dalla fase delle intenzioni per entrare in quella delle realizzazioni.
La CNA, con una comunicazione ufficiale, ha espresso la preoccupazione che molte imprese possano rimanere escluse nonostante abbiano investito tempo, risorse e competenze per presentare domanda in linea con la normativa. Non è una critica roboante, ma una constatazione concreta, in quanto chi ha pianificato il proprio investimento basandosi su una dote da 2,2 miliardi ora si ritrova a concorrere per un fondo che ne vale poco più di un terzo.
In tutto questo, la revisione del PNRR è stata spesso chiamata in causa, ma in realtà i documenti europei non impongono alcuna decurtazione. Bruxelles si limita a recepire la proposta italiana nella fotografia complessiva del Piano. L’Europa annota, non ridisegna. Il ridimensionamento delle risorse è una scelta interna che poi trova posto nella revisione del Piano, ma non nasce da essa. È un punto fondamentale, perché chiarisce che l’Unione non ha chiesto di ridurre gli investimenti sulle CER, ma ne ha semplicemente registrato la nuova configurazione.
Sul territorio, però, le Comunità energetiche sono progetti concreti che coinvolgono cittadini, PMI e amministrazioni, e che passano da passaggi tecnici tutt’altro che immediati. Chi ha già avviato iter complessi – in molti casi anche costosi – si trova ora a convivere con un’incertezza che rischia di rallentare ciò che stava funzionando davvero. Le richieste presentate probabilmente superano l’attuale disponibilità e il paradosso diventa evidente: una misura che finalmente decolla deve ora fare i conti con un budget che non le consente di sostenere tutti i soggetti pronti a partire.
Le CER sono uno dei pochi strumenti capaci di tradurre la transizione energetica in valore concreto per i territori. Non producono solo energia da fonti rinnovabili, ma partecipazione, consapevolezza e coesione locale. Per questo il ridimensionamento pesa più di quanto potrebbero far pensare le sole cifre. Le Comunità energetiche funzionano perché sono vicine ai cittadini e alle imprese, e ogni incertezza finanziaria rischia di comprometterne il funzionamento proprio mentre il sistema si stava avviando.
La domanda non riguarda più soltanto il budget, ma la direzione. Se l’Italia vuole che le CER diventino una colonna portante della transizione energetica, è necessario garantire stabilità, risorse adeguate e un orizzonte coerente con l’impegno richiesto a chi investe. La fiducia, una volta messa in discussione, non si ripristina aggiornando una tabella. Ed è proprio qui che si giocherà la vera credibilità della strategia nazionale sulle Comunità energetiche.
Autore: Luigi Romano – Consulente in fiscalità d’impresa e incentivi agli investimenti

